Cioccolato: questione di cristallizzazione
Chi lavora il cioccolato sa bene quanto sia importante “temperarlo” correttamente. Ma perché bisogna compiere questa operazione? Cosa succede a livello molecolare?
- Introduzione
- Trigliceridi POS, SOS e POP
- Il polimorfismo dei grassi
- Le forme cristalline del burro di cacao
- Il “temperaggio” del cioccolato
- Bloom, un difetto estetico
- Casi particolari: cioccolato al latte e praline
Introduzione
Il cioccolato è una sospensione di cacao e zucchero in una matrice grassa, ossia il burro di cacao, il tutto tenuto insieme dalla lecitina, che ha funzione emulsionante. Vogliamo soffermarci sul burro di cacao perché gioca un ruolo essenziale nel determinare gran parte delle caratteristiche qualitative del cioccolato: frattura netta quando si spezza, lucentezza della superficie, punto di fusione appropriato, texture, mouthfeel, cioè l’insieme delle sensazioni trasmesse dal cioccolato in bocca. Il burro di cacao è la parte grassa dei semi di cacao, chiamati fave. Si ottiene dalla spremitura della pasta di cacao, che a sua volta deriva dalla macinazione delle fave frantumate e decorticate. Il burro di cacao viene poi miscelato con la pasta di cacao, lo zucchero e gli altri eventuali ingredienti per fare il cioccolato.
Trigliceridi POS, SOS e POP
Per capire il comportamento del burro di cacao e i motivi per cui è strettamente correlato alla qualità del cioccolato bisogna per forza conoscere come è fatto dal punto di vista chimico e fisico. Come tutti i grassi alimentari, il burro di cacao è costituito quasi totalmente da trigliceridi, che sono molecole con uno “scheletro” di glicerolo a cui sono legati 3 acidi grassi.
Di solito gli acidi grassi che compongono i trigliceridi alimentari sono di tanti tipi differenti, mentre quelli del burro di cacao sono quasi esclusivamente 3: acido oleico (C18:1), acido stearico (C18:0) e acido palmitico (C16:0). Nella parentesi, la “C” sta per carbonio, il primo numero indica quanti atomi di carbonio sono presenti il secondo numero indica il numero di doppi legami. Questa sorta di codice ci dice che l’acido oleico è un acido grasso con 18 atomi di carbonio e un doppio legame (quindi è monoinsaturo), mentre lo stearico e il palmitico hanno rispettivamente 18 e 16 atomi di carbonio e nessun doppio legame (quindi sono saturi). In prossimità del doppio legame la molecola si piega, e ciò ha importanti riflessi sul modo in cui gli acidi grassi si dispongono nello spazio e, di conseguenza, sul loro comportamento fisico.
I trigliceridi più abbondanti del burro di cacao sono costituiti da acido oleico legato nella posizione centrale del glicerolo, e dagli acidi palmitico e stearico nelle altre due posizioni. Si usa denominarli con sigle che identificano le tipologie di acidi grassi presenti e la loro posizione: POS (palmitico-oleico-stearico), SOS (stearico-oleico-stearico) e POP (palmitico-oleico-palmitico). Questi 3 tipi di trigliceridi rappresentano insieme il 70-85% del burro di cacao, mentre la parte rimanente è costituita da trigliceridi del tipo SOO, POO, POO, PLP (dove L=acido linoleico, che ha due doppi legami), PLS, SLS, ecc.
La composizione in acidi grassi può variare a seconda della varietà botanica del cacao e della sua origine geografica. Il cacao proveniente da regioni più calde tende a essere più ricco di acidi grassi saturi rispetto a quello proveniente da regioni meno calde. Poiché insaturi e saturi hanno proprietà fisiche diverse, burri di cacao di diversa origine geografica possiedono caratteristiche differenti, di cui bisogna tenere conto nella produzione e lavorazione del cioccolato.
Il polimorfismo dei grassi
Sulla qualità del cioccolato influisce notevolmente la cristallizzazione del burro di cacao, processo dovuto alla tendenza dei trigliceridi, in certe condizioni, a sistemarsi gli uni vicini agli altri in modo ordinato, secondo una disposizione geometrica regolare. Dapprima si formano i nuclei (fase di nucleazione), che sono una sorta di impalcatura sulla quale poi cresce via via il reticolo cristallino. Al diminuire della temperatura un grasso passa dallo stato liquido a quello solido: cristallizza. Il burro di cacao è polimorfo, ovvero può cristallizzare in tante forme differenti (dal greco poly=molto e morphos=forme): secondo alcuni studiosi 6, mentre secondo altri 4 o 5 (dipende da come sono stati raggruppati). Per capire meglio, immaginate i trigliceridi come fossero delle sedie da accatastare: questa operazione può essere fatta in diversi modi dando origine a pile più o meno inclinate, lunghe e stabili. Le pile di trigliceridi si accostano poi le une alle altre formando una struttura lamellare che assume diverse sembianze a seconda di come si sono inizialmente impilati i trigliceridi.
IN LABORATORIO
Il fenomeno del polimorfismo dei trigliceridi era noto già nel 1800, ma solo negli anni Trenta del secolo scorso fu dimostrato in modo inequivocabile attraverso l’analisi di diffrazione ai raggi X, la quale permette di misurare le lunghezze degli “accatastamenti” e gli angoli che si vengono a creare tra le molecole “accatastate”, ricorrendo ancora alla metafora delle sedie. Un’altra tecnica di elezione per studiare le forme cristalline polimorfe dei grassi è la calorimetria differenziale a scansione (DSC), che misura il flusso di calore associato alla transizione di stato di un materiale (da fluido a solido e viceversa, nel caso del burro di cacao) in funzione del tempo e della temperatura. Questa tecnica sfrutta il fatto che il passaggio di stato da solido a liquido assorbe molto calore, denominato calore latente, viceversa, il passaggio da liquido a solido rilascia calore. In prossimità del punto di fusione di ciascuna forma cristallina lo strumento rileverà dunque una variazione del flusso di calore. I risultati sono tradotti graficamente in un grafico chiamato termogramma in cui le variazioni dei flussi di calore corrispondono a picchi rivolti verso l’alto se la reazione assorbe calore (reazione endotermica) come nel caso della fusione, oppure verso il basso se libera calore (reazione esotermica) come la cristallizzazione. Altri studi si basano invece sull’osservazione al microscopio (a luce polarizzata o elettronico a scansione) allo scopo di ottenere informazioni sulla morfologia dei vari polimorfi del burro di cacao, ovvero su come sono fatti tali cristalli. Dovete infine sapere che per studiare il cioccolato viene addirittura impiegata la risonanza magnetica nucleare, una tecnica diagnostica che tutti conosciamo per le applicazioni in campo medico. Con questa tecnica è possibile determinare il Solid Fat Content (SFC), la percentuale di grasso allo stato solido presente alle diverse temperature a cui è sottoposto il campione. L’SFC dà informazioni non solo sulla durezza del cioccolato, ma anche su come si comporterà in bocca. Generalmente i consumatori considerano un cioccolato accettabile quando a temperatura ambiente possiede circa il 70% dei grassi in fase solida.
Le forme cristalline del burro di cacao
I diversi polimorfi si formano man mano che si raffredda il burro di cacao, direttamente dalla massa fluida oppure a partire da altre forme cristalline già costituite. Per descrivere i polimorfi del burro di cacao esistono 2 nomenclature: in numeri romani (I, II, III, IV, V, VI) o con le lettere dell’alfabeto greco (γ, α, β’2, β’1, β2, β1). L’industria del cioccolato usa preferenzialmente la prima mentre quella degli oli e grassi la seconda. Il punto di fusione e la stabilità delle forme polimorfiche aumentano con la trasformazione dalla forma I alla VI. Vediamo le caratteristiche di ciascuna.
– forma I (γ): è ottenuta raffreddando il cioccolato velocemente, ad esempio con aria molto fredda. Instabile, si trasforma molto rapidamente nella forma II, tanto che la determinazione del suo punto di fusione risulta molto difficile
– forma II (α): anch’essa instabile, deriva, ad esempio, da un iniziale raffreddamento rapido a 2 °C e successivo mantenimento a 0 °C per un’ora
– forma III (β’2): secondo alcuni studiosi corrisponde a una miscela delle forme II e IV, mentre per altri si crea facendo solidificare la massa di cioccolato fuso a 5-10 °C
– forma IV (β’1): può essere ottenuta cristallizzando il fuso a 16-21 °C, oppure a temperatura ambiente in miscela con la forma V
– forma V (β2): è la forma desiderata in quanto responsabile di tutte le caratteristiche qualitative ricercate nel cioccolato: lucentezza, texture, capacità di contrazione durante la solidificazione (cosa che consente il distacco dagli stampi), punto di fusione abbastanza basso da permettere la fusione del cioccolato in bocca e abbastanza alto da poterlo conservare a temperatura ambiente. Inoltre, è la più resistente al blooming (descritto più avanti). Si ottiene mediante temperaggio del cioccolato. – forma VI (β1): deriva dalla trasformazione della forma V a temperatura ambiente. È la forma più stabile ma non possiede le proprietà desiderate.
Il “temperaggio” del cioccolato
Per i motivi sopra esposti è essenziale che il burro di cacao cristallizzi nella forma V. Questo obiettivo non si raggiunge semplicemente raffreddando la massa di cioccolato fuso, bensì con il temperaggio o, meglio, precristallizzazione, una procedura che prevede l’applicazione di temperature e forze atte a favorire la creazione di un numero di nuclei di cristalli in forma V sufficiente a fare cristallizzare la rimanente parte di grasso nella medesima forma V. L’operazione di temperaggio può essere effettuata a mano, fondendo il cioccolato e poi raffreddandolo su un piano di marmo in più step, oppure con un’apposita macchina chiamata temperatrice. Si tratta essenzialmente di uno scambiatore di calore che scalda e raffredda il cioccolato in vari passaggi, tenendo al contempo la massa fusa in agitazione tramite un’asta rotante dotata di raschietti. La rotazione della pala aumenta la velocità di cristallizzazione e, di conseguenza, promuove la formazione di cristalli di piccole dimensioni (cosa importante per la texture e il mouthfeel), oltre a distribuirli in modo uniforme nella massa. Nella macchina sono presenti zone a temperature differenti. Il cioccolato viene dapprima portato a 50 °C per fondere completamente tutti i cristalli, poi raffreddato fino a 27-28 °C per produrre i cristalli stabili V. Poiché a questo intervallo di temperature si formano anche i cristalli III e IV, indesiderati, occorre nuovamente alzare di poco la temperatura, fino a raggiungere i 30-32 °C, per fondere questi ultimi senza però intaccare le forme V. A questo punto il cioccolato può essere utilizzato per tutte le applicazioni previste. Ho indicato intervalli di temperatura anziché valori precisi perché il punto di fusione dei polimorfi varia a seconda della varietà botanica e dell’origine geografica del cacao, oltre a essere influenzato dalla presenza di altri ingredienti, in particolare i grassi diversi dal burro di cacao (ad esempio quelli vaccini, nel caso del cioccolato al latte). Ne consegue che ciascuna ricetta di cioccolato possiede una propria curva di cristallizzazione specifica a cui il cioccolatiere deve attenersi per effettuare il temperaggio in modo corretto. Il controllo della temperatura nel processo di precristallizzazione deve essere molto preciso perché la variazione anche di un solo grado centigrado può portare alla formazione di forme cristalline indesiderate.
Bloom, un difetto estetico
Se l’operazione di temperaggio non è stata eseguita correttamente, la precristallizzazione avviene in modo non adeguato, con la formazione di polimorfi instabili, i quali tendono a trasformarsi spontaneamente nelle forme più stabili. Tale trasformazione è associata a liberazione di energia poiché i cristalli più stabili sono a un livello energetico più basso rispetto a quelli meno stabili. L’energia rilasciata provoca la fusione di parte dei cristalli di grasso e li spinge fino alla superficie, dove si generano cristalli di grandi dimensioni che danno origine a una patina biancastra, il cosiddetto bloom.
Questo termine in inglese significa “fiore” e viene impiegato anche per indicare il velo ceroso che riveste certi frutti come l’uva. Il bloom del cioccolato non reca alcun danno alla salute umana, tuttavia è un difetto da scongiurare assolutamente perché pregiudica l’estetica del prodotto ingenerando rifiuto da parte del consumatore. Diciamo subito che il fenomeno del blooming nel cioccolato si può rallentare ma non impedire del tutto, a meno che non si utilizzino grassi differenti dal burro di cacao (ma ci sono dei limiti di legge da rispettare sia per tipologia che per quantità) o additivi, che però nel cioccolato tal quale non sono permessi, per lo meno nell’Unione Europea. Il corretto temperaggio del cioccolato ritarda tantissimo il blooming perché i cristalli nella forma V sono piuttosto stabili, però tendono pure loro, anche se molto lentamente, a trasformarsi nella forma VI, la più stabile in assoluto. Per questo motivo anche un cioccolato correttamente precristallizzato dopo un certo lasso di tempo (mesi o addirittura anni) va incontro comunque a blooming. Ciò che si può fare è rallentare il più possibile il fenomeno. Come? Conservando il cioccolato in maniera ottimale, ossia a una temperatura controllata, ed evitando di toccarlo perché il calore trasmesso dalle mani provocherebbe la fusione dei cristalli in superficie, che poi cristallizzerebbero velocemente formando il bloom (affioramento da tatto). Anche l’umidità è da controllare ma soprattutto per un altro motivo: può causare lo scioglimento dello zucchero sulla superficie del cioccolato, dove poi cristallizza formando una patina granulosa e biancastra (sugar bloom). Gli sbalzi di temperatura possono portare alla formazione di condensa sulla superficie del cioccolato e innescare lo sugar bloom, il quale è irreversibile, a differenza del fat bloom che può essere eliminato temperando nuovamente il cioccolato.
Casi particolari: cioccolato al latte e praline
Il cioccolato al latte è meno soggetto a blooming perché i grassi del latte impediscono al burro di cacao di migrare sulla superficie. C’è un limite massimo di impiego di latte oltre il quale il cioccolato diventerebbe troppo morbido. Nel fissare tale limite bisogna tenere in considerazione non solo la temperatura di fusione dei grassi di latte, ma anche l’effetto eutettico derivante dalla miscelazione dei grassi, che consiste nell’abbassamento della temperatura di fusione quando due o più grassi vengono miscelati fra loro. In altre parole: la miscela fonde a una temperatura inferiore rispetto alla “somma” (media pesata, per essere più precisi) delle temperature di fusione dei singoli grassi presenti. Di solito nel cioccolato si utilizza latte in polvere, la cui struttura può trattenere una parte dei grassi del burro di cacao. Se da un lato ciò ha un impatto negativo sulla fluidità del cioccolato liquido, dall’altra i grassi legati non contribuiscono all’effetto eutettico, cosicché è possibile arrivare al 27% di grassi da latte usando il latte in polvere per produrre cioccolato al latte.
Un’ultima considerazione riguarda le praline ripiene: se il ripieno è ricco di grassi che sono liquidi a temperatura ambiente, come nella crema di nocciole, essi tenderanno a migrare verso il guscio di cioccolato sotto la spinta del gradiente di concentrazione (la materia tende a trasferirsi da dove è più concentrata a dove lo è meno, fino all’equilibrio). L’olio di nocciole andrà a miscelarsi con il burro di cacao e, a causa dell’effetto eutettico, abbasserà il punto di fusione, con il risultato che parte dei cristalli fonderanno e si trasferiranno in superficie, generando poi il bloom. Per impedire questo processo si può utilizzare un altro grasso, con un punto di fusione più alto, per formare uno strato tra il guscio e il ripieno. Attenzione però: i grassi che fondono a temperature elevate trasmettono in bocca una sensazione “cerosa” ben poco piacevole.
Bibliografia
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– Lipp M. et al. Composition of Genuine Cocoa Butter and Cocoa Butter Equivalents, JFCA (2001) 14, 399-408
Si ringraziano Cristina Alamprese (Dipartimento di Scienze per gli Alimenti, la Nutrizione e l’Ambiente, Università degli Studi di Milano) e Alejandro Marangoni (Department of Food Science, University of Guelph, Ontario, Canada) per l’aiuto fornito.
(Crediti foto di apertura: NoName_13 da Pixabay)
Articolo pubblicato sul n.324 di Pasticceria Internazionale (Chiriotti Editori)