Bioplastiche: facciamo chiarezza
Il prefisso “bio” va molto di moda, ma cosa si intende esattamente per bioplastiche? Il termine indica una famiglia variegata di polimeri che, stando alla definizione dell’associazione di categoria European Bioplastics, rispondono a uno dei seguenti requisiti:
- provengono da fonti rinnovabili (“biobased”),
- sono biodegradabili,
- sono sia biobased che biodegradabili.
Attualmente le bioplastiche rappresentano solo l’1% dei circa 360 milioni di tonnellate di plastiche prodotte annualmente nel mondo, ma sono in crescita. Nel settore alimentare vengono utilizzate per produrre imballaggi di vario genere, stoviglie e posate . Vediamo insieme le più interessanti.
PLA (acido polilattico)
È una bioplastica nella doppia accezione del termine, essendo sia “biobased” che biodegradabile e compostabile. È un polimero a base di acido lattico, a sua volta ottenuto dalla fermentazione dell’amido contenuto in certe piante (principalmente mais). Il PLA in natura non esiste ma viene prodotto dall’uomo mediante un processo di sintesi chimica chiamato polimerizzazione che lega fra loro un grande numero di molecole (monomeri), in questo caso l’acido lattico, appunto. Impieghi: sacchetti, posate (come quelle nell’immagine qui sopra, prodotte da Biowhole), bicchieri, rivestimenti per carta e cartone, bottiglie, vaschette anche in forma espansa (simile al polistirolo che tutti conosciamo, per intenderci).
Bioplastiche “drop-in”
Sono così chiamate le bioplastiche chimicamente identiche alle corrispettive plastiche convenzionali, però prodotte da fonti rinnovabili anziché dal petrolio. Esempi: bioPE (bio-polietilene) e bioPET (bio-polietilene tereftalato). Il processo produttivo del bioPE parte dalla fermentazione dello zucchero in etanolo, il quale viene poi trasformato in etilene, che è l’unità costituente (monomero) del polietilene. Legando fra loro più molecole di etilene si produce il PE, ribattezzato “bioPE” per evidenziare la sua provenienza da fonte rinnovabile (generalmente la canna da zucchero). Il bioPET è invece formato da 2 tipologie di monomeri, solo uno dei quali “biobased” (l’etanolo). L’altro monomero (acido tereftalico), che costituisce ben il 70% del polimero, viene prodotto a partire dal petrolio. In realtà è possibile ottenerlo anche dalla trasformazione di certi zuccheri delle piante, ma questo processo ad oggi è ancora troppo costoso perché sia trasferibile su scala industriale. Come il PE e il PET convenzionali, anche i loro equivalenti “bio” non sono biodegradabili, però si possono riciclare. Anche gli impieghi sono identici a quelli di PE e PET di origine petrolchimica, avendo le stesse caratteristiche chimiche e fisiche: vaschette, contenitori, bottiglie, pellicole per avvolgere gli alimenti, ecc.
Polimeri cellulosici
Capostipite di questa famiglia di bioplastiche è la cellulosa rigenerata, più nota come cellophane (o cellofan), inventato agli inizi del ‘900. La cellulosa è un polimero naturale presente nelle piante, costituito da tante unità di glucosio (come l’amido, ma legate fra loro in modo differente). Il cellophane si produce dissolvendo la cellulosa in una soluzione alcalina. Si ottiene così la viscosa (la stessa impiegata per fabbricare tessuti), che viene poi trattata con acidi ed estrusa (fatta passare attraverso una fessura) a formare film sottili. Il cellophane è biodegradabile. Proprietà: trasparenza, rigidità e discreta barriera all’ossigeno ma si deforma con l’umidità. È impiegato principalmente per produrre sacchetti per prodotti secchi (biscotti, confetteria, pasta) e incarti per caramelle.
Materiali a base di amido
Un esempio che tutti conosciamo è il Mater-Bi della Novamont, ma ne esistono molti altri, anche costituiti da miscele di amidi e polimeri sintetici. A seconda della tipologia questi materiali possono essere biodegradabili e compostabili oppure no. Applicazioni: buste per la spesa, stoviglie, posate, vaschette, rivestimenti per contenitori in cartoncino.
Polimeri biodegradabili non “biobased”
La biodegradabilità è una qualità del materiale che dipende dalla sua composizione chimica e non dalla fonte da cui deriva. Esistono polimeri derivati dal petrolio ma biodegradabili, come il polibutilen-adipato-tereftalato (PBAT) e il policaprolattone (PCL). Le applicazioni vanno dagli shopper agli imballaggi flessibili (sacchetti).
Polimeri sintetizzati da batteri
Sorprendono per la loro origine: vengono sintetizzati da alcune specie di batteri che li accumulano al loro interno come riserva di “cibo”, al pari dell’amido per le piante. Parliamo dei poliidrossialcanoati (PHA), di cui esistono diverse tipologie, come ad esempio poliidrossibutirrato (PHB) e poliidrossivalerato (PHV). Oltre a essere “biobased” sono anche biodegradabili. Con l’ingegneria genetica è stato possibile trasferire la capacità di sintetizzare i PHA dalle cellule microbiche a quelle vegetali, in modo tale da ottenerli dalle piante, con una resa maggiore. Questi polimeri sono adatti alla produzione di pellicole, contenitori, vaschette espanse, posateria.
Luci e ombre
Il fatto che siano biodegradabili e/o “biobased” non rende le bioplastiche automaticamente più eco-sostenibili delle plastiche convenzionali o altri materiali. Sono molti i fattori da valutare per fare il confronto, e la valutazione deve considerare l’intero ciclo vita del materiale (Life Cycle Assessment, LCA), “dalla culla alla tomba”, come dicono gli addetti ai lavori. A monte, occorre considerare i pro e i contro derivanti dall’utilizzo di terreni agricoli per scopi diversi dall’alimentazione umana. Attualmente solo lo 0,016% delle terre arabili nel mondo è destinato alla coltivazione di piante per la produzione di bioplastiche (fonte), ma cosa accadrebbe se questa percentuale aumentasse di molto? In alternativa, sono già in fase di sviluppo processi che prevedono l’utilizzo di prodotti di scarto dell’industria agroalimentare come materia prima.
Passando agli aspetti tecnici, generalmente le bioplastiche hanno prestazioni inferiori rispetto alle plastiche tradizionali, pertanto non riescono a garantire ai prodotti alimentari confezionati una shelf life altrettanto lunga. Già questa è una considerazione importante da fare, perché un alimento che si deteriora prima rischia di essere sprecato, e lo spreco di cibo ha un impatto ambientale pesante, molte volte più pesante di quello determinato dagli imballaggi. Inoltre, le bioplastiche invecchiano più velocemente rispetto alle plastiche tradizionali (anche i materiali hanno una loro shelf life, lo sapevate?); se non si tiene conto di ciò si rischia di dover buttare questi materiali prima ancora di utilizzarli. Un altro “neo” delle bioplastiche è il fine vita: al momento dello smaltimento i consumatori possono confonderle con le plastiche tradizionali e gettarle insieme a queste nella raccolta differenziata, creando problemi nel riciclo. È stato calcolato che solo la metà dei manufatti biodegradabili immessi al consumo finisce poi nel compostaggio! I marchi che attestano la compostabilità dei materiali sono stati creati proprio per fugare ogni dubbio, sempre che vengano visti e capiti. Eccone un paio a titolo di esempio:
Ma forse il rischio maggiore è che le persone fraintendano il concetto di biodegradabilità e pensino di poter gettare le bioplastiche nell’ambiente, non sapendo che in realtà il processo di biodegradazione avviene solamente negli impianti di compostaggio. Ripensandoci, la foto che ho scelto come apertura di questo articolo sembra quasi suggerire l’idea 🙁
Un’ultima considerazione riguarda proprio la dispersione dei rifiuti di plastica nell’ambiente, un problema che la Direttiva UE 2019/904 si prefigge di arginare vietando l’immissione in commercio delle cosiddette plastiche monouso, ossia stoviglie usa e getta, contenitori per l’asporto, cannucce, ecc. Attenzione: anche le bioplastiche (con la sola eccezione dei “polimeri naturali non modificati”) rientrano nel campo di applicazione della direttiva e devono quindi rispondere alle forti restrizioni previste, che entreranno in vigore a partire dal 2021.
GLOSSARIO
Biobased: materiale ottenuto da fonti rinnovabili (vedi voce)
Biodegradabile: materiale che, per azione di microorganismi, si degrada in sostanze molto semplici (anidride carbonica, acqua, metano). Un materiale biodegradabile non è necessariamente compostabile
Compostabile: oggetto in grado di biodegradarsi nel compost (una sorta di terriccio che deriva da residui di potatura, letame, ecc.) in tempi relativamente brevi (qualche mese) in condizioni di umidità e temperatura controllate. Un oggetto compostabile può essere riciclato assieme ai rifiuti “organici”
Fonti rinnovabili: sono generalmente piante come mais e canna da zucchero, o scarti dell’industria alimentare. Si rigenerano in tempi compatibili con le attività umane, a differenza del petrolio che richiede milioni di anni (o forse migliaia, ma il risultato per noi non cambia) per formarsi
Monomero: singola molecola che, legandosi ad altre, compone il polimero
Polimero: lunga molecola che possiamo immaginare come una collana. Le singole “perle” che la compongono si chiamano monomeri. Un esempio di polimero è l’amido, costituito da tante unità di glucosio (monomero) legate fra loro. La reazione chimica che lega fra loro i monomeri per produrre il polimero si chiama polimerizzazione.
Articolo pubblicato su Pasticceria Internazionale n. 317, marzo 2020 (Chiriotti Editori), adattato per Saperedicibo.it